About me

Gli occhi sono lo specchio dell’anima
Eccome se è vero! Almeno per quanto mi riguarda, essi tradiscono sempre i miei sentimenti e lo stato d’animo di quel  momento.
Tutto corrisponde al mio segno zodiacale: da “pesciolina” verace, penso sempre positivo ed affronto tutto con entusiasmo ed un pizzico di incoscienza. Sono spontanea, altruista, sempre disponibile, artista, e qualche volta nelle nuvolette quanto basta. Ho imparato a dar retta all’intuito, altrimenti in seguito potrei pentirmene amaramente: fatelo anche voi !
Non sempre, però, sono stata circondata da persone che meritavano fiducia, e di questo ne ho sofferto molto.
Per me l’amicizia è sacra: per un’amica mi getterei nel fuoco. Non amo le falsità, le prese in giro, i furbastri e le furbastre che si appropriano comodamente del lavoro altrui. Non è giusto. Potrei fare una lista lunghissima di certe persone che mentre ti sorridono,  condividono il pensiero di  chi ti sta pugnalando alle spalle.
Gesù ha detto: “Siate puri come colombe e astuti come serpenti !”
Se è vero, però,  che il “bene” prima o poi trionfa sempre sul “male”,   è anche vero che nel mondo ci sono ancora molte persone cattive e scorrette.
Così, mio malgrado, divento più squalo che pesciolino.
Da qui le ingiustissime voci che hanno messo in giro sul mio conto  e che provengono, sostanzialmente, da tutte quelle persone false e scorrette, che mi ruotano intorno fino a quando non sono riuscite a carpire quello che interessa.
Se vuoi fare amicizia con me, dunque, sappi che sono schietta, sincera, ho coraggio da vendere e non ho paura di mettere nero su bianco la verità.
Un’amica francese, Presidente di una nota Associazione di merletto a tombolo, molti anni fa ha scritto di me:
“Geneviève, tu sei la battagliera che sa quel che vuole e si attiva con determinazione e tutte le proprie forze per realizzare gli obiettivi che ti poni “.

Nulla di più vero, cara Odette !
Se condividi quello che penso e vuoi raccontare la tua esperienza,  positiva o negativa, che sia, se hai bisogno di qualche consiglio o vuoi semplicemente entrare  a far parte di una Community di tantissime amiche,  iscriviti dunque al Club delle Amiche .
Ma ricordati: il Club “sa di buono” perchè è formato da amiche leali, oneste e sincere. E tale deve restare. Questa è in primis la condizione essenziale. Nel Club non c’è assolutamente spazio per le “fregone” del lavoro altrui, le ruffiane e le disoneste pronte a svendersi per un minimo di visibilità.
In un mondo dove c’è tanto bisogno di amare e di amore, potrai sempre fidarti e contare su di me! In qualsiasi momento.
Vi voglio regalare  una bella favola che, un giorno, mi inviò la mia amica Valentina. Sta a voi,  care amiche, comprenderne il senso:
Il cuore più bello del mondo
“C’era una volta un giovane in mezzo a una piazza gremita di persone: diceva di avere il cuore più bello del mondo, o quantomeno della vallata. Tutti quanti glielo ammiravano: era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto. Erano tutti concordi nell’ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano, più il giovane s’insuperbiva e si vantava di quel suo cuore meraviglioso. All’improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse: “Beh, a dire il vero il tuo cuore è molto meno bello del mio”. Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti: della folla, e del ragazzo. Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici. C’erano zone dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene, così il cuore risultava tutto bitorzoluto. Per giunta, era pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi. Così tutti quanti osservano il vecchio, colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse bello. Il giovane guardò com’era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere: “Starai scherzando! – disse – Confronta il tuo cuore col mio: il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime”. “E’ vero!”- ammise il vecchio – “Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai a cambio col mio. Vedi, ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore: ho staccato un pezzo del mio cuore e gliel’ ho dato, e spesso ho ricevuto in cambio un pezzo del loro cuore, a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore. Ma, certo, ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi e così ho qualche bitorzolo, a cui però sono affezionato: ciascuno mi ricorda l’amore che ho condiviso. Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto: questo ti spiega le voragini. Amare è rischioso, certo, ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l’amore che ho provato anche per queste persone e chissà? Forse un giorno ritorneranno, e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro. Comprendi, adesso, che cosa sia il vero amore?”. Il giovane era rimasto senza parole, e lacrime copiose gli rigavano il volto. Prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel’offrì con le mani che tremavano. Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi prese un pezzo del suo vecchio cuore rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane. Ci entrava, ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo. Poi il vecchio aggiunse:
“Se la nota musicale dicesse: Non è la nota che fa la musica. Non ci sarebbero le sinfonie”.
“Se la parola dicesse: Non è una parola che può fare una pagina. Non ci sarebbero i libri”.
“Se la pietra dicesse: Non è una pietra che può alzare un muro…Non ci sarebbero case”.
“Se la goccia d’acqua dicesse: Non è una goccia d’acqua che può fare un fiume. Non ci sarebbero gli oceani”.
“Se l’uomo dicesse: Non è un gesto d’amore che può rendere felici e cambiare il destino del mondo. Non ci sarebbero mai né giustizia, né pace, né felicità sulla terra degli uomini”.
Dopo aver ascoltato, il giovane guardò il suo cuore, che non era più il cuore più bello del mondo, eppure lo trovava più meraviglioso che mai: perché l’amore del vecchio ora scorreva dentro di lui”.
Il mio cuore, care amiche e amici, è pieno di cicatrici e voragini. Ma non importa: per me è il più bello del mondo !
Invia questa bella favola a tutte le persone alle quali hai donato un pezzetto del tuo cuore. Non importa se ti hanno donato anche loro un pezzo del proprio cuore o se ti hanno solo lasciato dei buchi o addirittura delle voragini. Ciò che conta è che tu ricordi sempre l’amore che hai provato o che provi ancora nei loro confronti !

Mamme, non sottovalutate la ” fase edipica ” !
Questa sono io da bambina con la palma di confetti che si confeziona ancora oggi nel bellissimo paese dove sono nata oltre mezzo secolo fa: Sorrento, di fronte a Capri,  sulla costiera Amalfitana.
Ai miei tempi, erano i padri che confezionavano le palme con confetti, confettini e cioccolatini. Poi noi bambini le portavamo in Chiesa la Domenica delle Palme per farle benedire. Potevamo sfilare e mangiare i dolcetti solo la domenica di Pasqua. Che sacrifico aspettare una settimana!
Mia madre mi raccontava che ero una vera peste: gelosissima di mio fratello bello, grasso e biondo. Io invece ero nera, scura e secca come una “cotica”. Tre anni di differenza tra me e mio fratello nato, dunque, in piena “fase edipica”. Poveretto: lui, con me, la fase edipica l’ha sperimentata sulla sua pelle!…giravo con le forbici in mano tentando di eliminare quel cosino che io non avevo. Così mia madre non poteva perderlo di vista un momento e lo barricava nella sua camera da letto. La colpa, però, era anche della gente: quando andavamo a passeggio, guardavano solo mio fratello seduto sul passeggino e dicevano in dialetto a mia madre: “Signo’ che bellu creaturo che tenite !”.… Mentre nessun complimento per me!
Ed io, che avevo solo  tre anni, schiattavo di gelosia!
Si vede chiaramente dal broncio che ho nella foto accanto! Dietro di me mia madre tiene in braccio mio fratello.
Mio padre, imbarcato per lunghi mesi sulle navi mercantili, un giorno scrisse a mia madre chiedendole di spedirgli una nostra foto. “Mio fratello sarebbe venuto più bello di me !” – avrò pensato io. Così gli feci “la festa” a modo mio tagliandogli i capelli “alla Mohicana” !
Ricordo che mia madre rammagliava “e’ cazette” di nylon con una macchinetta elettrica ed un aghino uncinato. Quello che oggi chiamano sofisticatamente Point de Lunéville, pensando di aver inventato chissà cosa. Ed intanto io fuggivo in mutandine e canottiera per andare a comprarmi al mercatino del paese “o’ tamburiello” che costava 100 lire. Riaccompagnata a casa dai Carabinieri col pennacchio, trovavo  mia madre disperata con le mani nei capelli: pensava fossi finita nel pozzo del cortile. Quante sculacciate !
Manifestavo la mia perenne gelosia anche all’asilo dove morsicavo tutte le mie compagne facendo disperare le povere suore.
Nella foto qui sotto, sono la seconda partendo dal  primo tavolo a destra (spalle al muro), con la frangetta e le treccine annodate con i fiocchi.
Oppure strappando i boccioli dei fiori nei vasi sul balcone del fotografo. Ero un’incompresa: nessuno capiva che, in realtà,  volevo solo un po’ più di attenzione !
Qui a fianco: immortalata in flagrante mentre stritolo un bocciolo.


Emigrazione ed emarginazione
Un bel giorno mio padre decise di abbandonare la vita marinara e trovare lavoro stabile sulla terraferma. Fu così che ci trasferimmo a Torino e … perdemmo le nostre radici: poiché quando lasci la tua terra, ovunque tu vada, ti considerano sempre una forestiera.
Era il periodo in cui la FIAT cercava in tutt’Italia personale specializzato da inserire nel proprio organico. Mio padre lo era, così la sua domanda di assunzione fu subito accolta.
Ricordo ancora la campagna pubblicitaria, che abbagliava gli emigranti, studiata ad hoc per la mostra “Torino vi chiama: Italia 61” organizzata per celebrare il primo centenario dell’Unità d’Italia. Per l’occasione, la città venne rimessa a nuovo, tant’è che fu costruito anche un intero quartiere a Sud della città, in una zona bonificata sulle rive del fiume Po. La funivia, recentemente ripristinata, che collegava in modo spettacolare il Parco del Valentino con il Parco Europa nella collina torinese passando sopra il Po, divenne tra le maggiori attrazioni.
I “terun” (termine con cui i piemontesi denigravano i meridionali) trasferitisi per primi, ne chiamarono altri che accorsero in massa portando mogli, mariti, parenti e la prole numerosa. I tranquilli e industriosi “buja nen” piemontesi, non erano preparati a quel fenomeno migratorio di gente caratterialmente troppo espansiva rispetto a loro e che portava con sé tradizioni ed usi differenti.
Questo alimentò non poche diffidenze nei confronti degli “invasori”, tra cui tanta povera gente che, in realtà, aveva solo accolto di buon grado l’opportunità per trovare un lavoro duraturo nel Nord Italia, contrariamente a quanto poteva offrire la terra da dove erano venuti.
Le infrastrutture e le abitazioni torinesi, ben presto divennero insufficienti per accogliere tutta quella massa di gente. I proprietari preferivano lasciare gli appartamenti sfitti piuttosto che affittarli a famiglie numerose. Dall’abitazione con cinque stanze dove vivevamo a Sorrento con mio nonno Varriale Vincenzo, “gloriosoragazzo del ’99″, passammo ad un’altra in affitto con due stanze comunicanti ed il bagno sul pianerottolo: mio padre non era riuscito a trovare di meglio. Quindici anni dopo ci trasferimmo nel nostro appartamento di proprietà, molto grande, al decimo piano di un palazzo da cui, nelle giornate terse, si vedevano le Alpi e il Monviso,  dove nasce il Po.
Dovette trascorrere molto tempo prima di superare la naturale reciproca diffidenza iniziale e le incomprensioni dialettali. Alcune parole in dialetto napoletano, somigliavano a quello piemontese pur avendo diverso significato. Ricordo che un giorno, da bambini, chiedemmo a mia madre di comprarci “o’ ciungamme” (cewingum). Tornammo a casa piangendo con un pacchetto tra le mani: dentro c’erano due etti di “anciue” (acciughe)!
Poi, lentamente assimilammo la comprensione del dialetto dei nostri ospiti. Le più silenziose abitudini e stili di vita piemontesi, si sovrapposero alle nostre. Ritornavamo a Sorrento solo per trascorrere brevi periodi di vacanza con l’autovettura FIAT che aveva comprato mio padre e che sfoggiava “gonfio” ai parenti a testimonianza dello status raggiunto.
D’estate i figli dei dipendenti potevano andare alle colonie FIAT optando tra mare o montagna.
L’azienda forniva anche le divise, tutte uguali sia per le femmine che per i maschi.
Di quel periodo ricordo soltanto che mia madre tagliava i capelli corti sia a me che a mio fratello e, come se non bastasse, io dovevo portare un odioso fiocco in testa che serviva per distinguere le bambine dai maschi:  sarà per questo che, crescendo, non ho mai più tagliato i capelli corti !
Nella foto qui sotto, sono la seconda in piedi, nella prima fila in alto, partendo da destra.
In occasione del Natale, l’azienda organizzava  la distribuzione dei doni ai figli dei dipendenti.
Oggi tutte queste agevolazioni ed interesse aziendale manifestato dalla FIAT per i propri dipendenti, mi fa sorridere: è inevitabile pensare alle straordinarie similitudini  con i films di  Paolo Villaggio, ex dipendente d’azienda, ed il suo mitico Fantozzi !
Noi, però, non recitavamo: eravamo proprio noi i protagonisti  assoluti nel film della nostra vita !

Questa era la situazione di Torino intorno agli anni Sessanta.
Circa vent’anni dopo, i grandi stabilimenti del Lingotto, Mirafiori ed altri del Gruppo della grande Società Automobilistica piemontese, divennero obsoleti ed antieconomici.
Le linee di produzione che si trovavano all’interno, furono disallestite e sostituite da robot automatizzati. Il processo di ammodernamento e riconversione aziendale con l’ausilio di automatismi e tecnologie innovative, toccò anche l’ufficio dove lavoravo. Divenni così testimone diretta dell’introduzione dei primi Personal Computer che sostituirono rapidamente i comptometer (sorta di calcolatrice) e le macchine da scrivere con la carta copiativa con i dischetti “margherita” utilizzati per le correzioni.
Nel 1980, la FIAT cercò di rilanciarsi ed avviò la produzione di nuovi modelli come la Panda. Da una parte, assunse nuovo organico, dall’altra, dichiarando crisi, annunciò la cassa integrazione per 78.000 operai e impiegati. Fu un duro colpo anche per tutto l’indotto che lavorava per la FIAT. Ad una ad una, tante piccole industrie del circondario chiusero i battenti e molti operai furono lasciati a casa.
Alcune produzioni, come quelle della Fiat 124 Sport Spider e Coupé, adeguate alle norme antinquinamento e destinate ai mercati stranieri, furono trasferite altrove o disallestite.
Iniziò un periodo molto aspro corollato da cinque mesi di picchetti e scioperi che pregiudicò i rapporti già incrinati tra gli operai degli Stabilimenti e i “colletti bianchi” che non volevano perdere più giorni di lavoro. Ma la crisi, orami irreversibile,  portò alla storica marcia dei 40.000.
La strategia aziendale fu quella di attivare licenziamenti, mobilità, incentivazioni e proposte di pre-pensionamento “a tappeto”. Molte famiglie immigrate vent’anni prima, decisero di ritornare nei propri paesi d’origine. La mia, come tante altre, decise di restare. Ci eravamo “adeguati” talmente bene che non eravamo più abituati all’accoglienza festosa e chiassosa della nostra gente, agli inviti insistenti e cordiali dei compaesani, alle urla degli scugnizzi (ragazzino della tradizione napoletano) che risuonavano allegramente nei vicoli stretti, agli ammiccamenti e alle curiosità delle comari affacciate ai balconi, veri punti di informazione per sapere in ogni momento quello che accadeva, alla libertà indisciplinata che regnava ovunque.
L’ingranaggio che, da una parte, ci aveva procurato benessere, dall’altra aveva assorbito tradizioni e usanze, innescando inevitabilmente la nostra metamorfosi linguistico-culturale.
Tanto che io stessa, da scugnizza monella che ero vent’anni prima, mi ero trasformata in una graziosa e compita tota (signorina) che si esprimeva in un italiano nordico con inflessioni piemontesi. Le mie origini, tuttavia, risaltavano dall’incarnato olivastro, dai miei occhi straordinariamente espressivi scuri come i capelli, e dai caratteri somatici tipici delle mie coetanee del Sud.
In realtà la mia veracità era solo sopita. Saltò fuori in prima elementare: parlavo ancora prevalentemente in dialetto e tutte le compagne mi lasciavano in disparte. Così iniziai a fare dispetti: era solo un modo per attirare l’attenzione. Per questo in seconda elementare i miei genitori mi iscrissero all’Istituto delle suore domenicane di C.so Unione Sovietica che frequentai fino alla quarta elementare. Come vicino di banco c’era un bambino che si chiamava Secondino per il quale avevo molta simpatia. C’era anche una compagna, Margherita R., figlia di una professoressa di Lettere. Un giorno Margherita, prima dell’interrogazione, chiese a suor Gabriella, ormai passata a miglior vita, di farlo con le domandine. La suora accettò accarezzandole i lunghi capelli biondi.  Quando arrivò il mio turno chiesi anch’io: “ Suora, fa anche a me le domandine ? ”. E lei per tutta risposta si infuriò divenendo paonazza in viso. Poi mi prese per un orecchio e mi fece fare il giro di tutte le classi: evidentemente, non essendo figlia di una professoressa, non meritavo lo stesso trattamento di favore ! Mia madre faceva la camiciaia e mio padre, anche se specializzato, era solo un operaio.
Questo episodio è rimasto profondamente  impresso nella mia mente facendomi precocemente capire, a otto anni, che gli altri ti giudicano soprattutto in base alla posizione e al gradino che occupi nella società.
Sarà per questo, forse,  che  qualsiasi cosa  intrapresa in seguito, l’ho realizzata animata da ambizione e mirando sempre in alto.
Genitori: fate scegliere ai vostri figli il proprio futuro!
Ero molto brava a disegnare e, pur essendo giovanissima, vinsi alcuni concorsi di pittura. Fatto sta che la professoressa di disegno delle scuole Medie Michelangelo Buonarroti, si era raccomandata con i miei genitori di farmi proseguire gli studi iscrivendomi all’Accademia di Belle Arti Albertina che si trovava dalla parte opposta della città.
Ero curiosissima ed avevo tanta voglia di imparare tutto quello che catturava il mio interesse.
Già allora mi piacevano i lavori femminili, fatto sta che a dieci anni ero già abile a ricamare, lavorare ai ferri e all’uncinetto.
Mio padre, dopo la scuola, tentò anche di mandarmi da una sartina  per imparare il mestiere. Invece questa mi chiedeva sempre  di farle svariate commissioni.  Così un bel giorno le dissi chiaramente che io non ero la sua servetta e che, in realtà, andavo da lei per imparare.
Avevo appena tredici anni ! Per tutta risposta lei mi liquidò con una scusa, riferendo a mio padre che non ero idonea a quel lavoro.
Qualche anno più tardi, frequentando un istituto serale, conseguii il diploma di taglio e cucito di primo, secondo e terzo livello e, con grande soddisfazione, realizzavo abiti per me e tutta la mia famiglia e oggetti per arredamento.
Qui sotto, sono insieme alle mie compagne e alla prof. di Lettere in terza Media. Da sinistra, sono la seconda seduta in prima fila: cercavo di far ridere la mia compagna Daniela che a stento si tratteneva !
Lo stesso anno in cui terminai le scuole Medie, in un fabbricato sito nella via parallela a quella dove abitavamo, si insediò l’Istituto Statale per Perito Aziendale e Corrispondenti in Lingue Estere “Luigi Burgo”, succursale dell’Istituto per Ragionieri “Luigi Einaudi”. L’iscrizione coatta al “Burgo” da parte di mio padre, segnò definitivamente il mio futuro e la mia carriera professionale.
Sopra: i miei compagni delle Superiori, classe I C.
Paolo Barsi
(quarto da destra seduto) non solo era un ragazzo molto intelligente, ma era considerato il “bello” della classe. Io sono in piedi, in seconda fila. Mi riconoscete ?… Sono la quinta da destra. Qui sotto, invece, tergo della stessa  foto con le firme.
Se vi riconoscete nella foto oppure tra le firme, scrivetemi, sarebbe bello poter riprendere i contatti !
Sfogai la mia insoddisfazione correndo i 200 metri piani e la staffetta 4 x 200 nel campo sportivo di C.so Giambone. Ero veloce, così, notata da un allenatore, entrai ufficialmente a far parte della squadra agonistica di atletica leggera del C.S. FIAT, società sportiva dove militai fino a vent’anni. Del periodo che ho fatto atletica a livello agonistico, non mi è rimasto nulla: nel 1982 alcuni ladri violarono la nostra casa rubando non solo gioielli e valori, ma anche  i miei trofei, medaglie e, con essi, tutti i ricordi di gioventù.
Io mi sentivo, e forse lo ero, più matura dei miei compagni di classe. Ero cresciuta in fretta poiché mia madre aveva spesso problemi di salute seguiti da ricoveri ospedalieri. Così dovevo badare alla casa e a mio fratello. Per giunta non andavo d’accordo con la professoressa di Tecnica Aziendale Laura C. P., in primo luogo perché la contabilità non mi piaceva e lei “appioppava” facilmente valutazioni assurde come “dal 2 al 3” oppure “2 meno-meno”.
Così  nella mia pagella, costellata di otto, nove e dieci, spiccava l’unica insufficienza legata a quella odiosa materia che mi costò la promozione al quarto anno. Decisi che non avrei mai più frequentato il diurno e mi iscrissi al serale dove recuperai l’anno perso, non prima di regalarmi un’estate a Londra “alla pari”: in cambio di vitto e alloggio, facevo la baby sitter a Richard, il figlioletto di una coppia di amici di mio padre che ora sarà alla soglia dei quarant’anni.
Ed eccomi con il languore e la spontaneità dei miei 16 anni, tutta la vita davanti ed ancora tanti sogni nel cassetto da realizzare !
Canta che ti passa !
La musica è stata per me un’importante compagna di viaggio, dove mi rifugiavo quando ero triste: con la mia chitarra suonavo e cantavo a memoria tutte le canzoni di Mogol-Battisti, De André, Morandi, Mina, Beatles e altri artisti contemporanei. Ho anche partecipato a qualche concorso canoro, ma le foto che ho sono sfuocate.



In quel periodo conobbi Michelangelo. Faceva parte di un complessino ed era molto bravo con la chitarra: fu lui a insegnarmi a suonare alcuni brani da solista.  Ogni tanto andavo ad ascoltarli in uno scantinato adibito a sala prove. Di punto in bianco, ci siamo persi di vista.
Dopo quarant’anni, mi è arrivata una mail: mi ha riconosciuto su Facebook e mi ha inviato alcune foto. Ora non ha più i capelli lunghi: è un bel signore che ancora pratica hockey su ghiaccio. Mi ha scritto che ha una bella figlia anche lui.
Oggi, 24 settembre 2010, mi è arrivata un’altra sua mail sibillina con allegati, in cui diceva che li aveva trovati nelle sue scartoffie. Con emozione ho riconosciuto due miei disegni che gli avevo regalato e che avevo completamente dimenticato ! A quei tempi mi firmavo Michela, che è il mio secondo nome di battesimo. Da questo secondo nome, poi, il diminutivo Lina con cui da sempre mi chiamano in famiglia. Ecco i miei due disegni:


Continua…


5 risposte a About me

  1. paola scrive:

    prova

  2. Its good as your other articles : D, thankyou for putting up.

  3. My blue day turns yellow once i get for your page. Wow! It actually does stir me to find new things. Bunch of thank you.

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